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Cassazione: legittimo il licenziamento intimato al dipendente di un istituto di credito che abbia indebitamente trattato i dati dei clienti.

Le informazioni raccolte dal datore di lavoro tramite i controlli difensivi sugli strumenti di lavoro dei dipendenti sono utilizzabili per tutti i fini connessi al rapporto di lavoro, a condizione che sia stata data adeguata informazione sulle modalità d’uso di detti strumenti e sull’effettuazione dei controlli.

Con sentenza 4871/2020 la Cassazione, confermando le pronunce di primo e secondo grado, ha riconosciuto la legittimità del licenziamento per giusta causa intimato da una Banca milanese ad una propria dipendente per avere questa effettuato – nello svolgimento di un nuovo incarico – interrogazioni di conti correnti di alcuni clienti non giustificate da ragioni di servizio.

Nel proprio ricorso, la dipendente ha censurato la sentenza impugnata per tre motivi:

  • Violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. e art. 2103 c.c., comma 3, nonché dell’art. 112 c.p.c, per avere la Corte di Appello ritenuto sussistente la giusta causa di licenziamento senza esaminare la questione della novità dell’incarico di “referente” di agenzia e della mancata formazione (obbligatoria) per lo svolgimento dello specifico incarico;
  • Deducendo i vizi di cui ai nn. 4 e 5 dell’art. 360 c.p.c., la ricorrente ha censurato l’omesso esame del fatto decisivo, oggetto di discussione tra le parti, costituito dalla novità dell’incarico di “referente” e dalla mancanza della formazione necessaria all’espletamento delle relative mansioni;
  • Violazione e falsa applicazione dell’art. 4 L. 300/1970, nonché l’omesso esame di fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, per avere la Corte di Appello ritenuta adeguata la nota prodotta in giudizio dal datore di lavoro al fine di dimostrare l’adempimento dell’obbligo informativo, nonostante questa fosse antecedente all’entrata in vigore della nuova norma (D. Lgs. 151/2015) e riguardasse le sole modalità di effettuazione dei controlli sui dipendenti (e non anche le modalità d’uso degli strumenti di lavoro).

La Suprema Corte ha esaminato congiuntamente i primi due motivi, in quanto connessi, e ne ha rilevato il difetto di riferibilità alla decisione impugnata, avendo la Corte di Appello correttamente accertato – dopo un ampio esame delle risultanze di causa, sia di fonte documentale sia tratte dall’istruzione probatoria – come il datore di lavoro avesse assolto l’obbligo di informazione di cui all’art. 4 della L. 300/1970, avendo questi informato specificamente la generalità dei propri dipendenti, indipendentemente dalla loro qualifica, attività o funzione, stabile o temporanea, in ragione della stretta inerenza dell’attività bancaria alla tutela della riservatezza della clientela e del rischio diffuso di indebiti accessi alle relative posizioni. Ciò premesso, la Suprema Corte ha rilevato come né la “novità” dell’incarico, né la carenza di “formazione” della ricorrente avrebbero potuto sovvertire le conclusioni a cui è pervenuto il giudice di secondo grado, non avendo queste alcun ruolo nel processo informativo correttamente seguito dal datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti.

Allo stesso modo, la Suprema Corte ha rigettato anche il terzo motivo di ricorso. Difatti, l’art. 4 della L. n. 300/1970, così come modificato dall’art. 23 del D. Lgs. 151/2015, permette l’utilizzabilità delle informazioni raccolte per tutti i fini connessi al rapporto di lavoro, a condizione che sia data al lavoratore idonea informativa circa le modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli, senza che vi sia alcuna distinzione tra informative “precedenti” e “successive” all’entrata in vigore del D. Lgs. 151/2015. Da ciò, l’affidamento della lavoratrice sulla ricezione di una “nuova” informativa è stato ritenuto estraneo all’ambito applicativo della norma.

Il terzo motivo è stato disatteso anche nell’ulteriore profilo dedotto dalla lavoratrice, risolvendosi in un diverso apprezzamento di fatto circa l’adeguatezza dell’informativa, che la Corte di merito ha esattamente ricondotto, in relazione alle peculiarità del caso concreto, all’esigenza che al dipendente sia data comunicazione del tipo e della finalità del controllo, in modo che quest’ultimo possa averne consapevolezza e regolarsi di conseguenza.

In conclusione, la Corte di Cassazione ha integralmente respinto il ricorso proposto dalla lavoratrice, confermando il noto principio in base al quale le informazioni raccolte dal datore di lavoro tramite i controlli difensivi sugli strumenti di lavoro dei dipendenti sono utilizzabili per tutti i fini connessi al rapporto di lavoro, a condizione che sia stata data adeguata informazione sulle modalità d’uso di detti strumenti e sull’effettuazione dei controlli.

 

 

 

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I risvolti privacy del Protocollo 14 marzo 2020 per il contrasto ed il contenimento della diffusione del Coronavirus.

Il nuovo Protocollo sottoscritto il 14 marzo scorso tra le Parti sociali fornisce utili indicazioni operative dirette ad agevolare le imprese nell’adozione di misure di sicurezza anti-contagio. I datori di lavoro possono effettuare alcuni trattamenti sui dati dei lavoratori, ma a condizione che siano rispettate le prescrizioni della vigente normativa privacy.

Il 14 marzo 2020, su invito del Presidente del Consiglio dei Ministri e dei Ministri competenti, è stato sottoscritto tra le Parti sociali il «Protocollo condiviso di regolazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro».

Detto Protocollo – nato in attuazione della misura ex art. 1, c. 1, n. 9, del DPCM 11 marzo 2020 che raccomandava intese tra organizzazioni datoriali e sindacali in relazione alle attività professionali e alle attività produttive – fornisce numerosi indicazioni operative dirette ad agevolare le imprese nell’adozione di protocolli di sicurezza anti-contagio, con particolare riferimento agli obblighi informativi del datore di lavoro, alle modalità di ingresso in azienda, alla pulizia e sanificazione dei luoghi di lavoro, all’organizzazione aziendale ecc.

In questo breve contributo ci limiteremo a trattare le novità introdotte dal Protocollo in tema di trattamento dei dati personali, anche alla luce del recente intervento del Garante Privacy del 2 marzo 2020, che aveva sconsigliato l’effettuazione da parte dei datori di lavoro di accertamenti “fai-da-te” sulle condizioni di salute di dipendenti, collaboratori e fornitori.

Nel paragrafo dedicato al trattamento dei dati personali, il Protocollo prevede espressamente che il personale, prima dell’accesso al luogo di lavoro, possa essere sottoposto al controllo della temperatura corporea, così da poterne impedire l’ingresso nel caso in cui questa dovesse risultare superiore ai 37,5°.

Come noto, la rilevazione della temperatura corporea costituisce un trattamento di dati personali e, pertanto, deve avvenire nel pieno rispetto della vigente normativa in tema privacy. Sotto tale aspetto, il Protocollo suggerisce di rilevare la temperatura senza, tuttavia, registrare il dato acquisito, salvo che l’identificazione dell’interessato e la registrazione del superamento della soglia siano necessari a documentare le ragioni per le quali non è stato consentito l’ingresso in azienda. L’interessato che subisca tale trattamento dei propri dati personali ha il diritto di ottenere l’informativa privacy dal titolare, la quale potrà essere fornita oralmente e potrà essere limitata alle sole informazioni di cui l’interessato non sia già in possesso in ragione del rapporto sottostante.

Il Protocollo fornisce utili indicazioni anche quanto alla finalità del trattamento in questione (prevenzione dal contagio da COVID-19), alla sua base giuridica (implementazione dei protocolli di sicurezza anti-contagio ai sensi dell’art. 1, n. 7, lett. d) del DPCM 11 marzo 2020, in conformità con l’art. 6, c. 1, lett. e) e l’art. 9, c. 2, lett. b), del GDPR) ed al termine di conservazione dei dati (termine dello stato di emergenza).

Risulta evidente come detto trattamento rappresenti una deroga al generico divieto di trattare i c.d. dati particolari, ex art. 9, c. 1, del GDPR (tra i quali vi rientrano certamente quelli relativi alla salute), derivante dalla previsione di cui al comma 2, lett. b), del medesimo articolo: [Il divieto non si applica se si verifica uno dei seguenti casi:] il trattamento è necessario per assolvere gli obblighi ed esercitare i diritti specifici del titolare del trattamento o dell’interessato in materia di diritto del lavoro e della sicurezza sociale e protezione sociale, nella misura in cui sia autorizzato dal diritto dell’Unione o degli Stati membri o da un contratto collettivo ai sensi del diritto degli Stati membri, in presenza di garanzie appropriate per i diritti fondamentali e gli interessi dell’interessato.

Il Protocollo precisa che i dati particolari così rilevati possono essere trattati esclusivamente per la finalità di prevenzione dal contagio da COVID-19 e non possono essere diffusi o comunicati a terzi al di fuori delle specifiche previsioni normative. Tra i casi in cui è ammessa la comunicazione dei dati rientra certamente quello in cui sia l’Autorità Sanitaria a richiederli, ad esempio al fine di ricostruire la filiera degli eventuali contatti stretti di un lavoratore risultato positivo al coronavirus.

Tra le altre indicazioni operative, il Protocollo prevede che possa essere disposto l’isolamento momentaneo del soggetto con una temperatura corporea superiore al limite consentito, ma è onere dal datore di lavoro assicurare che detto isolamento avvenga con modalità tali da garantire la riservatezza e la dignità del lavoratore. Le stesse cautele devono essere garantite al lavoratore che abbia comunicato all’ufficio responsabile del personale di aver avuto contatti con soggetti risultati positivi al coronavirus, nonché nel caso di allontanamento del lavoratore che, durante l’attività lavorativa, sviluppi sintomi riconducibili al COVID-19.

Il Protocollo suggerisce, inoltre, di definire le misure di sicurezza e organizzative adeguate a proteggere i dati trattatati per la finalità in esame. Quanto alle misure di sicurezza, il Protocollo non fa menzioni specifiche e, pertanto, ci si deve rifare a tutto quanto previsto dall’art. 32 del GDPR. Sotto il profilo organizzativo, invece, il Protocollo suggerisce al datore di lavoro (titolare del trattamento) di individuare i soggetti preposti al trattamento e fornire loro tutte le istruzioni necessarie.

Tutte le accortezze menzionate devono essere tenute anche nel caso in cui il datore di lavoro richieda ai lavoratori una dichiarazione attestante la non provenienza dalle zone a rischio epidemiologico o l’assenza di contatti, negli ultimi 14 giorni, con soggetti risultati positivi al COVID-19, in quanto l’acquisizione di detta dichiarazione costituisce un trattamento di dati. In tal senso, il Protocollo consiglia di raccogliere solo i dati necessari, adeguati e pertinenti alla prevenzione del contagio da COVID-19.

Coronavirus, interviene il Garante privacy: no ai controlli fai-da-te.

Con comunicazione del 2 marzo 2020 il Garante privacy ha precisato come la necessità di prevenire i contagi non giustifichi la sospensione della tutela della privacy di dipendenti, fornitori e visitatori: i datori di lavoro devono astenersi dal raccogliere, in modo sistematico e generalizzato, informazioni sulla presenza di eventuali sintomi influenzali del lavoratore e dei suoi contatti più stretti.

 

Negli ultimi giorni, a causa del diffondersi dei contagi, in molti si sono chiesti fino a che punto possano spingersi gli accertamenti dei datori di lavoro sul personale dipendente, sui fornitori o sui visitatori delle proprie aziende. La normativa d’urgenza adottata per fronteggiare l’emergenza sanitaria dispone che chiunque abbia soggiornato nelle zone c.d. “a rischio epidemiologico” negli ultimi 14 giorni, debba comunicarlo all’ASL, anche per il tramite del medico di base, così da poter procedere con gli accertamenti necessari, ma da ciò non ne consegue che chiunque possa procedere a detti accertamenti, viste le ovvie implicazioni in tema di trattamento di dati personali.

L’Autorità Garante ha ricevuto numerosi quesiti riguardanti la possibilità di raccogliere informazioni circa la presenza di sintomi da Coronavirus e notizie sugli ultimi spostamenti del personale e dei loro più stretti contatti e, per tale ragione, con comunicazione del 2 marzo 2020, il Garante ha precisato che l’obiettivo di prevenire la diffusione del Coronavirus deve essere perseguito da soggetti che istituzionalmente esercitano questa funzione in modo qualificato.

Sebbene il datore di lavoro debba, quindi, astenersi dall’effettuare autonomamente controlli che non gli competono, lo stesso è comunque tenuto a comunicare, agli organi preposti, le eventuali variazioni del “rischio biologico” derivanti dal Coronavirus per la salute sul posto di lavoro, nonché ad adempiere agli oneri connessi alla sorveglianza sanitaria sui lavoratori per il tramite del medico competente (a tal proposito, il Garante ipotizza la possibilità di sottoporre ad una visita straordinaria i lavoratori più esposti).

Per quanto attiene ai prestatori di lavoro, per questi permane il generico dovere di segnalare qualsiasi situazione di pericolo per la salute e la sicurezza dei luoghi di lavoro (preferibilmente per il tramite di canali appositamente predisposti dal datore di lavoro, così da salvaguardare la riservatezza delle stesse comunicazioni).

Il Garante ha quindi chiarito i limiti e la portata dell’intervento del datore di lavoro, invitando tutti i titolari del trattamento ad attenersi alle indicazioni fornite dal Ministero della Salute e dalle istituzioni competenti, nonché ad astenersi dall’effettuare iniziative autonome che prevedano la raccolta di dati anche sulla salute di utenti e lavoratori che non siano normativamente previste o disposte dalle autorità.

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Il trattamento dei dati personali nel settore alberghiero: l’informativa privacy.

L’introduzione del GDPR ha avuto un notevole impatto sulla gestione del trattamento dei dati personali da parte delle strutture ricettive. Al fine di rispettare la normativa, i gestori di alberghi, hotel, B&B, ecc. devono intervenire proattivamente e rimodellare le proprie prassi operative in modo che sia sempre dimostrabile l’adozione delle più ampie cautele e dei massimi accorgimenti finalizzati ad una effettiva ed efficace tutela dei dati personali degli ospiti.

Con il presente articolo – e con altri che seguiranno a breve – intendiamo fornire ai gestori delle strutture ricettive sia una sintetica panoramica delle novità più importanti sia alcune indicazioni pratiche, utili per individuare e risolvere le criticità più comuni in materia di privacy, tipiche del settore alberghiero.

Prima di addentrarci nell’analisi dei risvolti privacy, è bene che sia chiaro il significato di alcuni concetti di base. Ai sensi del GDPR, è considerato dato personale qualunque informazione che identifica o rende identificabile una persona fisica e che può fornire informazioni sulle sue caratteristiche, le sue abitudini, il suo stile di vita, ecc. Per trattamento, invece, si intende qualsiasi operazione o insieme di operazioni effettuate, con o senza l’ausilio di processi automatizzati, su dati personali. A fini esemplificativi, rientrano nella definizione di trattamento operazioni come la raccolta, la registrazione, la conservazione e la modifica di dati, ma anche la cancellazione o la distruzione degli stessi.

Qualsiasi struttura ricettiva, ovunque situata e di qualsiasi dimensione, effettua inevitabilmente uno o più trattamenti di dati personali. Ovviamente, le tipologie di trattamenti e la quantità di dati trattati cambiano molto a seconda che ad effettuarli sia una guest-house in una zona periferica di una piccola cittadina o il grand hotel di una metropoli. Così come a cambiare sono anche le finalità per le quali i dati personali degli ospiti sono trattati. Mentre una grande struttura ricettiva sarà quasi certamente interessata a conservare i dati degli ospiti al fine di permettere una più semplice registrazione in caso di soggiorni successivi o di inserirli nella propria mailing list per finalità di marketing, la stessa cosa non potrà dirsi per un piccolo affittacamere.

Pertanto, nell’analisi finalizzata alla verifica del sistema di compliance che ogni struttura ricettiva deve adottare per conformarsi al GDPR, è di fondamentale importanza, innanzitutto, identificare i trattamenti effettuati nell’esercizio dell’attività. Una volta individuati tutti i trattamenti effettuati nel corso dell’attività operativa, è necessario comprendere che qualsiasi trattamento di dati personali deve essere giustificato da una finalità e legittimato da una base giuridica riconosciuta dal GDPR. Per base giuridica si intende una di quelle condizioni specificamente previste dall’art. 6 del GDPR, dalle quali deriva la legittimità di un dato trattamento (consenso, esecuzione del contratto o di misure precontrattuali, adempimenti di un obbligo legale, salvaguardia di un interesse vitale, esecuzione di un compito di interesse pubblico, perseguimento di un legittimo interesse).

Volendo sfatare un luogo comune, affinché un trattamento di dati sia lecito non è sempre necessario il consenso dell’interessato, in quanto vi sono altre condizioni che legittimano i diversi trattamenti possibili. Semplificando, se è vero che alcuni dei trattamenti più comuni effettuati da una struttura ricettiva sono basati sul consenso (si pensi alla possibilità di ricevere chiamate, messaggi o posta per conto dell’ospite), altri trattamenti sono legittimi, anche in assenza di un esplicito consenso, in quanto necessari all’esecuzione del contratto (anche il solo rispondere alla richiesta di prenotazione inoltrata per e-mail) oppure per adempiere ad un obbligo legale (si pensi alla comunicazione obbligatoria delle generalità degli ospiti alla Questura). È frequente, inoltre, che alcuni trattamenti siano giustificati dal perseguimento di un interesse legittimo del titolare (si pensi all’installazione di un impianto di videosorveglianza al fine di tutelare il patrimonio aziendale e la sicurezza degli ospiti).

Uno degli adempimenti più importanti dell’intero impianto del GDPR è certamente costituito dall’informativa privacy. Infatti, affinché un trattamento possa definirsi corretto e trasparente, in aderenza ai principi fondamentali del GDPR, è necessario che all’interessato sia resa un’informativa che lo metta al corrente dell’esistenza del trattamento e delle finalità dello stesso. Se è chiara la motivazione per la quale il titolare deve fornire l’informativa – permettere ai propri ospiti di comprendere come saranno trattati i loro dati e per quali ragioni – potrebbero non essere altrettanto chiare le tempistiche per comunicare la suddetta informativa. Senza addentrarci nei complessi meandri delle disquisizioni giuridiche, la risposta è diversa a seconda che si tratti di “dati raccolti presso l’interessato” (ossia di dati forniti direttamente dall’ospite) o di “dati non ottenuti presso l’interessato” (quali i dati comunicati alla struttura ricettiva da agenzie viaggi, tour operator, altri siti di viaggi, ecc.). Nel primo caso, l’informativa privacy (ex art. 13 GDPR) dovrà essere fornita all’interessato nel momento in cui i dati personali sono ottenuti (se, ad es., l’ospite sta compilando un form sul sito internet della struttura, è sufficiente che vi sia un banner e/o un link contenente l’informativa privacy). Nel secondo caso, l’informativa privacy (ex art. 14 GDPR) dovrà essere fornita all’interessato entro un termine ragionevole dall’ottenimento dei dati personali, ma al più tardi entro un mese o, nel caso in cui i dati siano destinati alla comunicazione con l’interessato/altro destinatario, al più tardi al momento della prima comunicazione.

È di fondamentale importanza che si faccia particolare attenzione alle modalità attuate per adempiere a questo adempimento, perché ricade sempre sul titolare l’onere probatorio di dimostrare di aver fornito l’informativa. Il contenuto minimo dell’informativa privacy è stabilito dagli artt. 13 e 14 del GDPR. Volendo essere estremamente pratici (e dando per scontato che la struttura ricettiva offra i propri servizi anche tramite portali diversi dal sito internet aziendale, quali Booking, Hotels, Expedia, ecc.) l’informativa dovrà contenere le seguenti informazioni:

  1. Identità e dati di contatto del titolare del trattamento – Denominazione e/o ragione sociale, indirizzo e-mail, numero di telefono, ecc.
  2. I dati di contatto del responsabile della protezione dei dati – Questo è un contenuto eventuale che dovrà essere inserito soltanto se si sia effettivamente proceduto a nominare un responsabile della protezione dei dati. Questa figura (meglio conosciuta con il corrispettivo acronimo inglese “DPO” – Data Protection Officer), sarà approfondita in un prossimo post.
  3. Le finalità del trattamento e le rispettive basi giuridiche – In questa sezione si dovranno inserire le motivazioni per le quali i dati dei clienti sono trattati, come ad es. “Adempiere all’obbligo che impone di comunicare le generalità degli ospiti alla Questura”, “Accelerare la procedura di registrazione dell’ospite in caso di successivi soggiorni presso la struttura”, “Dare riscontro alle richieste di prenotazione”. Si dovrà, inoltre, specificare la base giuridica (tra quelle elencate all’art. 6 del GDPR) che legittima il trattamento.
  4. Il legittimo interesse perseguito dal titolare del trattamento – Chiaramente, questo è un contenuto eventuale che dovrà essere inserito solo nel caso in cui uno dei trattamenti effettuati abbia come basa giuridica il “legittimo interesse”. L’esempio classico di trattamento basato sul legittimo interesse è quello che consiste nel “Proteggere le persone, la proprietà ed il patrimonio aziendale attraverso un sistema di videosorveglianza di alcune aree della Struttura, individuabili per la presenza di appositi cartelli”.
  5. I destinatari o le categorie di destinatari a cui i dati vengono comunicati – In questa sezione dovranno essere inserire gli eventuali contitolari del trattamento, i responsabili del trattamento (n.b., i responsabili del trattamento sono soggetti diversi dai titolari del trattamento e dai responsabili della protezione dei dati), gli incaricati del trattamento (es., il personale addetto alla reception). Sebbene sia preferibile inserire i dati identificativi dei soggetti appena menzionati, non è necessario indicare nome e cognome di tutti i dipendenti e dei soggetti che entrano in contatto con i dati dei clienti, ma è sufficiente indicarli per categorie (receptionist, commercialista, avvocato, web provider, ecc.), a condizione che sia chiara l’attività da questi svolta.
  6. Le categorie di dati personali trattati – Questa informazione deve essere inserita solo nel caso di “dati non ottenuti presso l’interessato”, perché l’interessato non può conoscere quali siano i dati ottenuti dal titolare non essendo stati forniti direttamente dallo stesso.
  7. La fonte da cui hanno origine i dati personali – Questa informazione deve essere inserita solo nel caso di “dati non ottenuti presso l’interessato” e dovrebbe includere la natura della fonte (pubblica o privata) e l’origine specifica dei dati (se possibile).
  8. L’intenzione di trasferire i dati personali dei clienti ad un paese terzo o ad un’organizzazione internazionale – Questa sezione dovrà essere inserite solo dove applicabile, ovviamente. Se, ad esempio, la struttura ricettiva fa parte di un gruppo di società controllato da una holding americana a cui sono comunicati i dati dei clienti alloggiati in Italia (per le ragioni più svariate), tale circostanza dovrà essere specificata chiaramente.
  9. Il periodo di conservazione dei dati – I dati degli ospiti non possono essere conservati indefinitamente, nella speranza di creare un archivio di tutte le persone ospitate negli ultimi 100 anni. Il tempo di conservazione dei dati varia a seconda del trattamento per il quale sono utilizzati. Talvolta è facile identificare un periodo di tempo che appaia ragionevole (es., i dati degli ospiti conservati al fine di accelerare le procedure di registrazione in caso di successivi soggiorni saranno conservati sino all’intervenuta revoca del consenso), altre volte sarà necessario fare riferimento a dei criteri generali (esempio tipico è il riferimento al termine di prescrizione: i dati acquisiti per l’adempimento di obblighi di legge saranno conservati sino alla prescrizione dei relativi diritti e, in ogni caso, non oltre i termini massimi stabiliti dalla legge).
  10. I diritti dell’interessato – l’informativa dovrà fornire una descrizione dei diritti riconosciuti dal GDPR agli ospiti in quanto interessati del trattamento (accesso, rettificazione, cancellazione, limitazione del trattamento, obiezione al trattamento, portabilità, reclamo), nonché una spiegazione circa il loro esercizio.
  11. L’indicazione se la comunicazione di dati personali è facoltativa o obbligatoria – Dovrà essere specificato se, per un determinato trattamento, l’ospite ha la facoltà o l’obbligo di fornire i propri dati e le conseguenze in cui incorrerebbe se si rifiutasse di fornirli. Si pensi al caso di un ospite che rifiuti di fornire le proprie generalità al momento della prenotazione, impedendo il necessario (e obbligatorio) processo di identificazione. È evidente che in una situazione come questa il titolare della struttura è tenuto a rifiutare la prenotazione e ad impedire, così, la conclusione del contratto.
  12. L’esistenza di un processo decisionale automatizzato, compresa la profilazione – Dovrà essere specificato chiaramente se è previsto o meno il ricorso alla profilazione o ad altri processi decisionali automatizzati, chiarendo la logica utilizzata, nonché l’importanza e le conseguenze previste per l’interessato.

La redazione di un’informativa privacy completa e trasparente è un adempimento imprescindibile che non deve essere mai sottovalutato. Infatti, come ormai noto, in caso di mancato rispetto delle norme poste a tutela del legittimo trattamento dei dati personali, le sanzioni previste dal GDPR arrivano a 20 milioni di euro o al 4% del fatturato (se superiore).